Ricky Rubio dedica questa lettera su The Players’ Tribune alla madre, scomparsa nel 2016 a causa del cancro

Nel 2015 mi sono trasferito in un appartamento che mi piaceva molto nel centro di Minneapolis, non lontano dall’arena dei Timberwolves. La mattina, quando non c’era la nebbia, potevo guardare fuori e vedere il fiume Mississippi. L’appartamento era grande, ma non troppo. Mi assicurai che avesse due stanze da letto così che quando i miei genitori mi sarebbero venuti a trovare avrebbero avuto una stanza tutta per loro.

Quell’estate vennero a trovarmi dalla Spagna, cosa che avevano fatto un paio di volte l’anno da quando mi ero trasferito negli States nel 2011. Di solito venivano per vedermi giocare, o per passare le feste insieme. Facevamo le cose che fanno i turisti a Minneapolis, li portavo all’Art Museum, al Mall of America e nei miei ristoranti preferiti: cose così. Ci divertivamo sempre molto, come se fossimo in vacanza.

In questa particolare giornata stavamo andando fuori città, e dovevamo guidare, come molte delle gite che ho fatto con loro. Mi raccontavano cose sui miei amici in Spagna, un po’ stavano in silenzio e poi mio padre mi raccontava sempre una storia sulla mia infanzia. Mio padre ama farlo, ama raccontare storie su di me, soprattutto quelle che io già conosco.

Questa volta raccontò la storia di come io avevo deciso tra il calcio e la pallacanestro. Avevo dieci anni, e secondo quanto dice lui mia madre mi chiese di scegliere l’uno o l’altro. Io scelsi il calcio: era più popolare ed io ero più bravo. Ma mio padre preferiva il basket, allenava una squadra femminile. Quindi quello era il SUO sport, so che gli stavo dando un po’ un dispiacere non scegliendo il basket. Ma dopo un paio di settimane il mio rapporto con il calcio non era dei migliori, e il basket mi mancava.

Quindi sono andato da mia madre.

Le dissi che avevo fatto un grosso errore e che preferivo la pallacanestro.

Ricordo che lei mi disse che non sarebbe stato facile, avendo già pagato la scuola calcio.

Mi disse: “Non puoi cambiare a metà stagione”.

Mio padre lavorava nella squadra locale a El Masnou, quindi chiese allo staff se c’era un modo per inserirmi in una delle squadre di basket. Di solito, inserirsi in una squadra una volta che la stagione era iniziata non era sempre permesso. Ma gli dissero che se lui avesse lavorato qualche ora in più mi avrebbero fatto giocare. Mio padre non ci pensò due volte, tanto era orgoglioso che io giocassi il suo sport preferito. Anche se già faceva tanto, fece anche il lavoro extra, e mia madre faceva tutto ciò che c’era da fare a casa.

Mio padre e mia madre, la mia famiglia, questa è la mia squadra. E io li amo per questo.

E quindici anni dopo aver scelto il basket al posto del calcio, stavo guidando con loro per andare a fare una gita nel Minnesota.

Dopo un paio d’ore arrivammo alla nostra destinazione, il Mayo Clinic Center.

Aspettammo il dottore in una piccola stanza. Questa non era una situazione nuova per noi, perchè tre anni prima a mia madre era stato diagnosticato un cancro, iniziato nei polmoni nel 2012. Noi eravamo tranquilli, sapevamo che ce l’avrebbe fatta. Dovevo crederci. È mia madre, sapete? È il mio supereroe, le ho visto crescere una famiglia, l’ho vista lavorare duro e anche trovare il tempo di portare suo figlio agli allenamenti di calcio e basket.

E lei ha sconfitto il cancro, anzi come dice mio padre “NOI abbiamo sconfitto il cancro, come una famiglia”.

E adesso eravamo di nuovo in un ospedale. Il dottore venne e prima che potesse dire qualsiasi cosa noi già sapevamo. Glielo si leggeva in faccia. Avevamo fatto talmente tanti di quei test che ormai glielo leggevamo negli occhi, ed era lo stesso sguardo che aveva avuto il dottore di Barcellona nel 2012.

Questa volta il dottore disse che il cancro era tornato, e che si stava diffondendo velocemente.

Era una situazione molto brutta.

Ho stretto la mano di mia madre, ci siamo abbracciati tutti.

Sulla via del ritorno, mio padre non raccontò nessuna storia.

Quella notte ho scoperto una cosa su casa mia: i muri sono molto sottili.

Sentivo i miei genitori piangere durante la notte, non riuscivano a dormire. Nemmeno io ci riuscivo. Non riesco a dire a parole come mi sentivo. Non ci riesco. Mi sentivo così indifeso. Tutto ciò che volevo era fare in modo che mia madre si sentisse meglio, e non sapevo come fare.
Ero perso.

Il giorno dopo non volevo essere da nessuna parte che fosse vicino un campo di basket.

Una parte di me è finita quella sera. La mia vita è cambiata quella sera. Quella è mia madre.

E crescendo ho odiato quella casa.

Quattro anni prima, nel 2011, avevo un appartamento a Los Angeles.

Mi piaceva, era vicino al mare. C’era il lockout NBA ed era subito prima della mia prima stagione con i T-Wolves. Avevo affittato una csa piccola così da potermi allenare tutto il giorno e godermi il bel tempo mentre la situazione relativa al lockout si risolveva.

Il mio agente mi disse di una partita dove ci sarebbero stati altri professionisti, così ci andai. Ho visto Kevin Garnett, Paul Pierce, Danny Granger, e tutti quei ragazzi dei quali avevo sentito parlare per anni. E mi fecero stare con loro quel giorno. Andai il più possibile, quell’estate.

A volte quando parlo ai miei amici di quelle partite mi chiedono se io fossi spaventato. Sì, forse un po’, ma penso anche che la gente si dimentichi del 2008. Dimenticano quanto eravamo forti. Siamo arrivati alla finalissima e poi abbiamo perso contro Team USA, ma loro avevano grandi giocatori come Kobe, D-Wade, LeBron e molti altri ancora.

Così nel 2011 mi sentivo come se già sapessi cosa voleva dire giocare a quel livello, e andavo a quelle partite a Los Angeles per fare capire che io sapevo già come si facesse.
Io credo che nella vita ogni cosa succede per un motivo, e quel lockout mi ha dato modo di testare il mio gioco contro i migliori giocatori del mondo.

Ed è anche come ho conosciuto Kevin Maurice Garnett.

Mi ricordo che dopo una di queste partite venne da me.

“Ricky! Ragazzo! Ho sentito che vai a Minnesota.”

Annuii.

Penso sapesse che il mio inglese non era dei migliori, ero molto silenzioso.

KG parlava e parlava ancora su Minnesota e la franchigia dicendo cose del tipo “Questo posto, LA, non è male, ma credimi, stai andando a Minnesota. Gli dai tutto ciò che hai? Loro ti ripagano. Credimi, credi a me.”

Non riuscivo a credere che un giocatore come KG, campione NBA, THE BIG TICKET, mi stesse parlando e conoscesse la mia storia.

Credici!

Non dimenticherò mai quel giorno. Più tardi, avrei compreso una cosa che i fan dei Wolves già sapevano, che KG dice la verità. Aveva ragione su Minny. Aveva ragione sui suoi fan. Terminato il lockout, era giunto il momento di presentarsi al training camp. Non ne sapevo molto sulla NBA, giusto le basi…roba tipo quanto dura la stagione, e il fatto che le regole sono un po’ diverse da quelle della pallacanestro a livello internazionale.

E sapevo che Minnesota aveva vinto 15 e 17 partite nelle due stagioni precedenti il mio arrivo. Mi rendevo conto che non era un buon risultato, ma per me si trattava di un nuovo inizio, in una nuova lega e in un altro Paese. Ricordo ancora la opening night della stagione del 2011-12. Semplicemente incredibile…incredibile. Mamma e papà erano al Target Center. Io partivo dalla panchina. Mentre mi preparavo a entrare in campo, ricordo che la folla prese a cantare il mio nome.

Riuscivo però a distinguere i miei genitori nel pubblico. Ricordo mia madre, la sua faccia. E ricordo che aveva il sorriso più grande, quello più ricco di orgoglio.

La mia famiglia. Questa è la mia squadra.

A metà della stagione da rookie, mi sono rotto il crociato anteriore e il legamento collaterale laterale durante una partita contro i Lakers. Ho fatto la riabilitazione durante l’estate del 2012, la stessa estate in cui a mamma fu diagnosticato il cancro. I due anni successivi sono stati difficili. Sembrava che stessimo definitivamente per svoltare come squadra, ma non si arrivava mai al punto. E io trovavo molto difficile concentrarmi sulla pallacanestro qualche volta, con la testa che tornava a quello che stava passando mamma in Spagna. Non tutti erano a conoscenza di ciò che stava accadendo, ma quelli che lo sapevano hanno lasciato un’impronta indelebile nella mia famiglia. La gente del Minnesota era straordinaria, mi sosteneva con forza. I fan, lo staff tecnico, i miei compagni di squadra…Tutti hanno fatto ciò che potevano per aiutarmi ad andare avanti nonostante quello che mamma stava soffrendo. Hanno avuto cura di me, e lo ricorderò per sempre.

Tra queste persone, c’era Flip Saunders.

Flip tornò ai Wolves nel 2014, ed ebbi l’opportunità di conoscerlo assieme a suo figlio Ryan. Sanno cosa vuol dire “avere cura”, rappresentano al meglio Minnesota. Quando la squadra nel 2015 draftò con la prima scelta Karl-Anthony Towns, Flip mi chiamò. Voleva che mi allenassi con KAT durante l’estate.

Così rientrai dalla vacanza e presi a lavorare con Karl-Anthony. Durante la prima giornata di lavori, Flip si fece vivo. Stavamo facendo qualche esercizio, quando vidi Flip a bordocampo. Aveva un cappello in testa, che gli cadeva verso il basso. Sembrava scheletrico, ma scheletrico per davvero. Mi avvicinai per salutarlo e dirgli che ero contento di vederlo. Al termine della sessione di allenamento, volle vedermi nel suo ufficio.

Aveva un linfoma di Hodgkin.
Si era sottoposto a cicli di chemio durante l’estate.
Non avevo idea di cosa dirgli, così provai con “Flip, ti vedo davvero bene!”

Lo pensavo per davvero, ma non so se stessi dicendo la verità a me stesso. Flip era pallido e incredibilmente magro.

Parlammo un po’ durante la giornata. Gli dissi della malattia di mamma e lui mi parlò della chemio e della Mayo Clinic, che finii per raccomandare a mia madre. Flip mi chiese tutto di lei, e volle sapere come stessi affrontando la situazione. Finimmo per dimenticarci della battaglia che lui stesso stava combattendo, almeno per qualche minuto. Flip non ha mai richiamato l’attenzione su se stesso, era fatto così.

Tre giorni prima che la stagione iniziasse eravamo a Los Angeles, pronti a sfidare i Lakers. Lo staff ci chiama per una riunione.

Flip non c’era più.

Fu un brutto colpo per tutta l’organizzazione. Un giorno terribile. La mia mente tornò a mamma. Il cancro si era manifestato di nuovo. Stava facendo tutto secondo protocollo, ma pensare a Flip mi metteva paura…l’ultima volta che l’avevo visto, non sapevo che stesse così male.

Chiamai mio padre e gli chiesi di essere dannatamente sincero sulla prognosi di mamma. Avevo bisogno di sapere come stessero andando le cose. Eravamo nel bel mezzo della stagione 2015-16, ma sarei tornato a casa se mi avesse detto che dovevo farlo.

Quella stagione fu infernale. Una serie di alti e bassi, più bassi che alti per la verità. Chiamavo papà quasi tutti i giorni. A volte dovevamo interrompere la conversazione, perché mamma stava male, o perché lui doveva cucinarle un pasto, o perché lei doveva vomitare.

Mi sentivo così lontano…Ero in un albergo qualsiasi di una città qualsiasi alla fine di una partita e mi chiedevo: “Che diavolo ci faccio qui? Dovrei essere con lei!”

Durante l’all-star break, prenotai un biglietto per tornare a casa. La pausa era di soli 4 giorni e mi sarei dovuto sobbarcare 17 ore di volo, ma dovevo farlo. Pensavo a Flip: lui avrebbe capito.

Mamma aprì la porta…vedere il suo volto mi provocò l’emozione più grande che potessi vivere. Papà mi disse che vedermi lì era la migliore medicina che lei potesse prendere. Ma lo sentivo il dolore che provava. Le ho tenuto la mano il più a lungo possibile, sono stato accanto al suo letto tutto il tempo. Non volevo lasciarla andare, e lei mi disse che non se ne sarebbe andata.

Il giorno dopo, mi sarei di nuovo imbarcato alla volta degli Stati Uniti.
Trascorsero altri due mesi prima che la stagione terminasse. Feci quello che dovevo sul campo, ma fu dura. La mia testa era da un’altra parte. Pensavo a mamma tutto il tempo. Dopo l’ultima partita della stagione, tornai in Spagna.

Mamma morì poche settimane dopo.
Quando qualcuno che ami se ne va per sempre, senti come una nebbia che ti avvolge. Mi sono sentito così: smarrito, senza una direzione. Ogni anno, quando tornavo a Minneapolis per il training camp, la giornata iniziava allo stesso modo: chiamata FaceTime con mamma. La prima stagione dopo la sua morte, mi svegliavo e pensavo che avrei dovuto chiamarla. Avrei voluto spaccare il telefono, ma non riuscivo a cancellare il suo numero. Qualche volta le ho anche mandato dei messaggini. Ogni tanto lo faccio ancora. Mi sentivo come se stessi impazzendo, come se parlassi a me stesso.

Per gran parte di quell’anno, sono stato arrabbiato. Addossavo colpe su chiunque, sulle persone che mi circondavano, sulla pallacanestro…su tutto.
Ho dovuto affrontare la depressione.
Guardavo alla pallacanestro in modo diverso. Guardavo alla vita in modo diverso. Nulla sembrava più avere troppa importanza. Dai, in fondo il basket è solo un gioco…e qualche volta per me era un sollievo mettermi a palleggiare per dimenticare tutto il resto. Ma non può funzionare a lungo. Mi sentivo come uno che fa di tutto per stare a galla ma ciononostante è sul punto di affogare. Non so spiegare bene di cosa si tratti, e non avevo idea di come cavarmela da solo. Ho capito che avevo bisogno di aiuto: così, sono andato in terapia.

Ho fatto tanto affidamento sui miei amici, su mio padre, mio fratello e mia sorella. Mi hanno fatto tornare quello che ero sempre stato: il cocco di mamma.

Sapevano che anche se mamma se n’era andata, avremmo potuto restarle vicini.
Ricordo ancora cosa le dissi durante uno dei nostri viaggi di ritorno dalla Mayo Clinic. Per tutta la sua vita, la sua missione era stata rendere gli altri felici. Quando i miei amici venivano a trovarmi a casa quando ero piccolo, mi chiedeva quale fosse il loro piatto preferito, così poteva cucinarlo. Era fatta così.

Così, in un viaggio di ritorno da Rochester a Minneapolis, dopo l’ennesima brutta notizia, le dissi qualcosa di importante: le promisi che qualunque cosa le fosse successa, avremmo aiutato tante altre persone che affrontavano come lei la stessa battaglia.

Nel 2017 affittai un appartamento a Salt Lake City.
Mi ero appena sistemato con alcuni nuovi amici. Ero stato ceduto dai Wolves ai Jazz.
Tutto succede per un motivo.
Amavo Minny e la amo ancora. Quel posto e quelle persone occuperanno sempre un posto speciale nel mio cuore.
Lo dico sul serio. Credici! Proprio come diceva K.G.

A Utah per me era un nuovo inizio. Il mio primo anno coi Jazz è stato anche il primo in cui è stato consentito alle squadre di aggiungere sulle divise gli sponsor. Per i Jazz era 5 FOR THE FIGHT. Ho scoperto che si occupavano di donazioni per la ricerca sul cancro.

Tutto succede per un motivo.

Poi ho incontrato Ryan Smith, CEO di Qualtrics – la società che ci aveva seguiti nella sponsorizzazione – e gli ho chiesto di altre possibili fondazioni, ma anche di come dare vita alla mia di fondazione. Era solo l’inizio. Quell’anno, con papà abbiamo visitato diversi ospedali, compreso l’Huntsman Cancer Institute. Abbiamo incontrato tanti bambini, e sul loro volto ho visto tanti sorrisi. Credo che tutto questo abbia dato più sollievo a noi che a loro. Quel giorno, quando ripartimmo, papà e io ci siamo detti quello che stavamo pensando.

“Mamma era lì con noi oggi. La stiamo rendendo orgogliosa”.

Un anno dopo, è nata la Ricky Rubio Foundation. In onore di mia madre.

Ho dato vita a una fondazione in cui tutti possano sentirsi come se fosse la loro, di fondazione. La mia condizione di giocatore NBA mi consente di portare un po’ di sorrisi in giro, e di raccogliere denaro per buone cause sociali.
Sono sincero: il sorriso dei bambini in ospedale mi fa andare avanti. Mi riempie.
So che mamma avrebbe voluto tutto questo. E so che lei è con me quando mi impegno in queste cose.

Non ho più 21 anni come quando arrivai a Minneapolis. Allora, quando mia madre era ancora viva, stilai una lista di obiettivi che avrei voluto raggiungere come giocatore. Uno era quello di fare buon uso della mia influenza per aiutare chi ne aveva bisogno. Ho potuto cancellare quell’impegno dalla lista di cose da fare. Ma ce ne sono altri che devo ancora realizzare.

Uno sarebbe vincere un titolo NBA.

Ci sto lavorando. Ora sono a Phoenix: una nuova città, un nuovo appartamento e nuove sfide dinanzi a me. Abbiamo una squadra molto giovane, ma il potenziale è elevato. Le grandi cose richiedono tempo. Ci arriveremo.

Un altro obiettivo nella lista era quello di vincere un mondiale.

E quest’estate in Cina ce l’abbiamo fatta. Avrei davvero voluto che mamma ci fosse. E’ stato incredibile vedere come la pallacanestro influenzi la vita di tutte quelle persone. Sono cresciuto nel mito della pallacanestro spagnola, ed essere ora parte di un capitolo importante della storia del nostro basket è qualcosa di davvero speciale per me.
Sono stato eletto MVP, e avere Kobe a consegnarmi l’MVP 11 anni dopo Pechino 2008…beh, è stato come chiudere un cerchio.

La pallacanestro è molto importante per me, ma so di poter lasciare il segno in tanti altri modi. So di poter essere molto altro. E naturalmente, posso continuare a essere un cocco di mamma.

Ogni giorno, cerco di fare qualcosa per renderla orgogliosa di me.

È quello che merita.
Siamo una squadra.
Siamo uniti per sempre.
Ti amo mamma.