Alessandro Gentile ci ricorda, oggi più che mai, che anche gli atleti di altissimo livello sono esseri umani. Esattamente come tutti noi
L’esterno di Varese Alessandro Gentile ha parlato della sua battaglia contro la depressione intrapresa da tempo.
Ai microfoni di Flavio Vanetti del Corriere della Sera, Gentile ha spiegato come siano sempre di più le persone che sono chiamate a fronteggiare problemi di salute mentale, problemi che non dovrebbero essere demonizzati come forma di pazzia dall’opinione pubblica con la semplicità con cui troppo spesso – però – accade:
Vivere con l’ansia è come essere seguiti da una voce. Conosce tutte le tue insicurezze e le tue debolezze e le usa contro di te. Si arriva al punto in cui essa è la voce più forte nella stanza. L’unica che puoi sentire. Non sei pazzo se senti quella voce.
La malattia mentale non è un fallimento o qualcosa di cui vergognarsi. La salute mentale non è una destinazione, è un processo. Chiedere aiuto non è un segno di debolezza.
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Questo il pensiero di Gentile, in sostanza, che già qualche mese fa era uscito allo scoperto sul delicato argomento. Ma oggi Alessandro, al Corriere, ha deciso di raccontare per la prima volta il suo disagio:
L’argomento è delicato, ma è importante. Ho questo disagio da tempo, ma l’ho tenuto nascosto. È diventato sempre più difficile da controllare, finché sono arrivato a un punto in cui non ce la facevo più a gestirlo. È successo l’anno scorso dopo aver preso la COVID-19: la paura e l’isolamento hanno creato brutti scenari. La salute mentale è fondamentale, ma penso anche che sia sottovalutata, soprattutto di questi tempi. La gente si sente isolata e sola, ma forse si vergogna a dirlo. Dato che vivo situazioni simili, volevo dare un aiuto a chi soffre di certi disturbi ed è in difficoltà a raccontarlo.
Quando capitano certe cose è come se sentissi che stai impazzendo. Ti senti fuori luogo, fuori dal mondo: sono sensazioni brutte e difficili da spiegare. Non è una battaglia che si vince o si perde: si impara al massimo a gestirla, convivendo con queste sensazioni per accettarle e superarle. Un altro aspetto complicato è appunto il fatto che è difficile parlarne, magari con persone che non hanno la minima idea di che cosa significhi vivere un’esperienza del genere. Per questo motivo è giusto chiedere aiuto a chi è competente. Non bisogna vergognarsi di farlo.
All’inizio mi hanno aiutato i miei genitori e mio fratello Stefano, poi mi sono rivolto ad uno psichiatra, successivamente ad una psicologa. Con lei continuo a lavorare, condividendo paure e sofferenze: ho capito che noi esseri umani non siamo delle macchine. A Varese mi trovo bene, anche perché con Adriano Vertemati, il coach, ho un rapporto di amicizia che esula dal basket. Dico che le stesse piazze che ti accolgono nel migliore dei modi sono anche le prime pronte a voltarti le spalle non appena cominciano le difficoltà. Ma questa altalena di emozioni non mi condiziona più: ho quasi 30 anni, di alti e bassi ne ho conosciuti troppi.
Le critiche per una partita sbagliata? Non mi interessa, nemmeno le leggo più.
Se qualcuno nel mondo del basket mi sta aiutando? Non ho grandi amicizie nel mondo del basket: al di fuori del campo sono una persona che sta sulle sue. Ma credo di aver lasciato un buon ricordo in quelli con cui ho giocato. C’è grande amore in tutto quello che faccio, per la vita e per le cose belle che ho. Così continuo ad andare avanti.